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Le carceri in Bolivia

Ovvero le città (autonome) dei detenuti.

Raccontare un carcere boliviano non è semplice. Si rischia di scadere nel pittoresco, nel confondere il lettore con dettagli incredibili alla sensibilità europea, da film tragicomico, e distogliere la sua attenzione dalla drammaticità della condizione penitenziaria.
Innanzi tutto le carceri in Bolivia non sono carceri. Sono case, magazzini, terreni riadattati a prigione. Normalmente case col cortile centrale. Tutto attorno le stanze (in Bolivia si chiamano stanze, non celle). Peculiare è il carcere Palmasola di Santa Cruz: un’area recintata dentro la quale nel corso degli anni i detenuti hanno costruito quartieri residenziali per i detenuti più ricchi e quartieri dormitorio per i più poveri, piazzette, chiesa cattolica, chiesa evangelica, campi sportivi, negozi, laboratori, scuole. Una vera e propria città dei detenuti.

Il detenuto che entra in prigione inizia con una settimana di calabozo, ossia la cella delle punizioni, un cubo di cemento di tre metri per tre. La polizia dice che è per calmare subito l’aggressività del detenuto fresco di condanna, ma in realtà è per permettere ai poliziotti di conoscere il nuovo detenuto, guardarlo bene in faccia per qualche giorno ed evitare, quindi, che il detenuto si mescoli nel viavai dei visitatori ed esca di prigione tranquillamente senza dover congeniare rocambolesche fughe. Poi accede alla prigione. Per prima cosa deve procurarsi la stanza/cella. Deve comprarla da un  detenuto in uscita.

 

Ce ne sono per tutte le tasche, si va dalle villette dei narcotrafficanti del carcere Palmasola di Santa Cruz ai loculi (loculi!) del carcere di San Antonio di Cochabamba: buchi di cemento lunghi due metri, larghi e alti un metro dove i detenuti si infilano per dormire e dove possono conservare durante la giornata i loro pochi effetti personali. Il prezzo poi dipende dalle leggi del mercato e dall’incrocio di domanda e offerta. Quando le carceri sono particolarmente affollate i prezzi salgono e i detenuti più poveri sono costretti a condividere gli spazi. Nel carcere di Chimoré i detenuti spesso dormono sdraiati per terra e sul fianco, per poterci stare tutti, allineati come sardine.

 

Seconda preoccupazione del detenuto è il cibo. Lo Stato passa al detenuto un contributo economico giornaliero che è sufficiente per comprarsi un pasto al giorno. Per il secondo devono arrangiarsi, e diventa quindi necessario inventarsi un modo per generare introiti. I più intraprendenti aprono un’attività in proprio: per esempio acquistano una cella in più e la trasformano in un bazar per la rivendita di beni di prima necessità o in un ristorantino che serve zuppe. Altrimenti nelle carceri ci sono laboratori creati e gestiti in assoluta autonomia dai detenuti: falegnamerie, fucine metalmeccaniche, sartorie per le donne, laboratori per la decorazione di ceramica. In Bolivia si sa che per comprare a buon mercato bisogna andare alle porte delle prigioni. A Cochabamba per esempio, tutti sanno che i mobili a buon mercato si acquistano alla prigione di Sacaba, che l’artigianato si può acquistare a El Abra, che i barbecue sono alla prigione di San Antonio e che le signore della prigione San Sebastián sono specializzate in lavaggio e stiraggio della biancheria.
La situazione sanitaria è pessima. La fatiscenza delle strutture e l’eccessivo affollamento portano al diffondersi di malattie che in Europa sono ormai sconosciute come la tubercolosi. L’assistenza sanitaria è assente e quel poco che c’è si deve alle organizzazioni di volontariato e alle chiese locali. Rompersi una gamba in carcere può significare rimanere storpi per sempre.

Uno dei tasti più dolenti della situazione penitenziaria è senza dubbio il livello di rispetto dei diritti umani fondamentali, e in particolare dei diritti di difesa dei detenuti. L’accusato è nelle mani di un avvocato d’ufficio che, nel migliore dei casi, non ha le risorse adeguate per assistere l’imputato. A Cochabamba in media un avvocato d’ufficio assiste un centinaio di imputati e gli uffici dove lavora spesso non hanno nemmeno l’energia elettrica perchè il Ministero di Giustizia paga le bollette saltuariamente. Ogni singola fotocopia è resa possibile dai risparmi del detenuto. Se non ha soldi non partecipa alle udienze (chi paga il taxi a lui e a due guardie per trasferirsi dal carcere al tribunale?) e non gli viene notificata la sentenza (chi paga il taxi all’ufficiale notificatore dal tribunale al carcere?). Nel carcere di Arocagua alcuni detenuti condannati in via definitiva a due anni di detenzione vi rimanevano quasi quattro anni, perchè loro non sapevano a quanto fossero stati condannati e nè l’amministrazione penitenziaria nè quella giudiziaria si erano accorti che il detenuto avrebbe dovuto lasciare il carcere. Questa carenza ha portato alla creazione di una figura peculiare: il procurador del carcere. Si tratta di un detenuto che ha un minimo di conoscenza dei procedimenti giudiziari e la fiducia del governatore, che esce dal carcere e si reca in tribunale ogni giorno per agilizzare le pratiche dei compagni.
Interessante: laddove manca lo Stato i detenuti si organizzano per supplire alle carenze istituzionali. L’auto gestione è il metodo di governo delle carceri boliviane. I poliziotti solo garantiscono la sicurezza esterna. Dentro i detenuti fanno il resto. Una volta all’anno mediante libere elezioni eleggono il loro rappresentante: il delegado. Il delegado interloquisce con le istituzioni e soprattutto crea il suo “governo” con tanto di “ministri”: il responsabile della pulizia delle parti comuni, il responabile delle attività formative / ricreative, il responsabile dei laboratori artigianali etc.

Ma il dato più incredibile alla sensibilità europea è che le carceri in Bolivia sono piene di donne e bambini. Se la famiglia del detenuto non ha mezzi di sostentamento, tutti seguono in prigione l’uomo. A Palmasola dei circa 5.000 abitanti del carcere solo 3.000 sono detenuti. Gli altri sono familiari al seguito. Le donne escono di giorno e cercano di arrotondare il bilancio familiare procurando qualche spicciolo in attività di piccolo commercio. E i bambini crescono in prigione. Generalmente vengono utilizzati come corrieri tra dentro e fuori la prigione; i poliziotti di solito non li perquisiscono, ma quando lo fanno trovano nelle loro tasche soldi, droga, armi. Ma questa è la vita dei bambini della prigione. Alcuni di loro nascono in prigione e fino all’adolescenza il loro orizzonte si ferma al muro di cinta del carcere.

Mirko Pozzi

 


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