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Quel mese tra i bimbi della Bolivia che ci ha cambiato la vita

I racconti di quattro volontari che hanno trascorso le vacanze all’Hogar di Santa Cruz

STEFANO APPENNINI
Una nuova carica

La mia esperienza in Bolivia… Difficile da definire, bisogna viverla. Vivere gli abbracci dei bimbi, i sorrisi, le persone, la fatica di fine giornata, tutto. Posso dire che esperienze del genere aprono la mente, allargano gli orizzonti, pongono il mondo sotto un’ottica diversa dalla solita, permeata dal nostro modo di pensare all’europea. Un viaggio del genere forgia, dà la carica di andare avanti, spinge a pensare che le cose possono davvero cambiare,  onostante il nostro lavoro sia stato solamente una goccia nell’oceano, come avrebbe detto Madre Teresa. Se ne avrete l’occasione, non esitate!

CLAUDIA FARINA
Energia affettuosa 

Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. (Mt 10,8). Grazie all’associazione Carla Crippa, noi quattro ragazzi abbiamo sperimentato in prima persona, dentro l’Hogar de la Eperanza, cosa significa essere dono per gli altri e, soprattutto, ricevere gli altri come dono per crescere e migliorare. I bambini dell’Hogar ci hanno insegnato il senso della condivisione, del tanto come del poco; i valori dell’amicizia, dell’aiuto reciproco e della solidarietà che rende uniti. Portiamo stampate nella memoria la sincerità dei sorrisi e l’energia affettuosa degli abbracci: speriamo di regalarle anche a voi!

ALESSANDRO VIGANO
Una goccia che pesa

Ho riscoperto la potenza di un sorriso, di un abbraccio, di fermarsi e stare con loro: i bambini dell’Hogar de la Esperanza. Più che i soldi e i vestiti reclamano l’affetto e la voce di qualcuno che li faccia sentire importanti. Persone che possano mostrar loro come esista l’alternativa al proprio vissuto familiare. E l’Hogar è questo prima di tutto. E la gioia che vedi riflessa nei loro occhi fa sperare e mi convince che l’aiuto che ognuno può dare è sì una goccia, ma una goccia che pesa e che apre spiragli di umanità e di cielo ovunque essa cada. Donare è contagioso!

VALENTINA RIPAMONTI
Stare parola chiave

Tante novità, tanti volti, tante storie, tanti problemi, tanti bambini che avrei voluto portare a casa, tanti abbracci, tanti sorrisi, tante emozioni! Ricordi indelebili che porterò sempre nel mio cuore. Una cosa fondamentale che ho capito all’Hogar de la Esperanza è che l’importante non è fare, ma STARE. Stare con i bambini, ascoltarli, abbracciarli, farli ridere, farli giocare, gesti d’amore semplicissimi ai quali, con l’aiuto e l’esempio di Mirko e Veronica, ho imparato a dare un grande valore. L’immensa capacità di condivisione di questi bimbi e i loro occhi che chiedono di più mi danno la carica per non restare bloccata nella quotidianità.

Progetto casa-famiglia “Sandro Terragni”

Una nuova opportunità di reinserimento socio-famigliare per adolescenti a Santa Cruz

Il panorama degli Hogares, ossia degli istituti residenziali per l’accoglienza dei minori, a Santa Cruz è piuttosto folto e variegato. Ci sono Hogares specializzati in ogni tipo di disagio sociale.

Tuttavia la stragrande maggioranza degli Hogares si orienta su una fascia di età medio–bassa: ossia tendono ad accogliere bambini in tenera età e a portarli fino all’adolescenza. E poi? Poi gli adolescenti hanno bisogno di altre realtà, altre sfide, altri spazi che gli Hogares dove sono cresciuti inevitabilmente non sono capaci di offrire. E, a quanto pare, la fase dell’adolescenza spaventa anche i più incalliti educatori, visto che pochissime sono le realtà pensate specificamente per questa categoria di minori.

“Gli assistenti sociali dello Stato non sanno dove mettere gli adolescenti, allora “addolciscono” il report socio-famigliare dei ragazzi e come per magia le condizioni famigliari risultano sufficientemente stabili e gli adolescente sono reinseriti in famiglia”, ci spiegano Veronica e Mirko, i volontari CarlaCrippa che si trovano a Santa Cruz dall’agosto 2011. Ma la realtà molte volte è un’altra: “Spesso i reinserimenti famigliari sono forzati, prematuri… e veniamo a sapere che molti dei giovani usciti dagli Hogares abbandonano gli studi e iniziano lavori degradanti. È un peccato perché così si vanifica il programma educativo fatto negli anni”.
Ecco allora che Veronica e Mirko hanno concepito un progetto che trasforma la loro casa in… qualcosa di più di una semplice casa! Accoglieranno con loro fino a quattro ragazze adolescenti che condivideranno la quotidianità della vita famigliare. L’obbiettivo è mettere le giovani nelle condizioni di proseguire gli studi, almeno fino all’ottenimento del diploma e, perché no?, ambire pure a studi universitari. Nella casa dei nostri volontari le ragazze potranno sperimentare una convivenza di carattere famigliare, imparare a gestire una casa con le mille incombenze di ogni giorno e soprattutto guadagnarsi indipendenza e autonomia progressivamente con l’accompagnamento di Mirko e Veronica. Insomma: una casa-famiglia. Il progetto è stato definito assieme alla Commissione Episcopales degli hogares di Santa Cruz, ed è seguito con molto interesse e attenzione visto che non ce n’è un altro simile e potrebbe costituire un progetto pilota da replicare nel caso sortisse esiti soddisfacenti.
Il progetto conta sulla preziosa collaborazione del Circolo Acli di Seregno ed è intitolato alla memoria del caro Sandro Terragni, storico volontario aclista, che tanti sforzi ha dedicato alla formazione dei giovani nelle missioni in Africa, Centro America e Sud America. Auspichiamo che questo sia solo l’inizio della sinergia tra Associazione Carla Crippa e Acli, due realtà seregnesi con la passione comune per i diritti umani e per la costruzione di una società più equa e partecipativa. In questi giorni le prime due ragazze, Anahi e Maria Eugenia, sono già entrate a far parte della casa famiglia.
Una bella avventura per i nostri volontari: in bocca al lupo ragazzi!

Quei bambini della Bolivia
hanno ancora bisogno di noi

Parla Alberto Ortolina nuovo presidente dell’Associazione

Quando è andato per la prima volta in Bolivia nel 2004 passando un mese all’Hogar de la Esperanza di sicuro non pensava che ci sarebbe tornato da presidente dell’associazione Carla Crippa e nemmeno da fresco sposo come è poi successo nell’agosto scorso. E così l’anno seguente, il 2005, quando, appena laureato, trascorse addirittura tre mesi in quel di Cochabamba a seguire tra le altre cose i progetti di potabilizzazione dell’acqua di San Julian sostenuti dall’associazione e sui quali aveva svolto la sua tesi in ingegneria ambientale.Alberto Ortolina è da pochi mesi, dal marzo scorso, alla guida della onlus Carla Crippa ed è succeduto ad Alberto Figini che ne aveva retto le sorti per 5 anni, dal 2007.

Come hai considerato la proposta di diventare presidente nel momento in cui ti è stata sottoposta?
Non posso nascondere che ho avuto più di qualche esitazione anche perché coincideva con il periodo di più imminente preparazione alle nozze. Insomma temevo di finire sotto pressione, di non reggere agli impegni e, soprattutto, di trascurare un passaggio importante come quello del matrimonio.

Alla fine però hai accettato.
Con molto entusiamo, direi, visto anche che i soci hanno approvato all’unanimità questo cambio della guardia, un motivo in più per essere contento.

Ecco, da presidente come giudichi l’associazione che ti è stata affidata?
Beh, va detto che negli ultimi cinque anni avevo fatto parte comunque del direttivo con Figini presidente e di conseguenza mi ero reso conto di quale ricchezza e singolarità la Carla Crippa è dotata. E mi riferisco all’amalgama che si è via via creato tra il gruppo dei giovani e quello dei fondatori, una coesione che ho visto crescere e svilupparsi sempre di più e che mi auguro proprio possa e debba continuare e aumentare.

Ma non è strano che una associazione di fatto originata da un gruppo di amici e conoscenti di una volontaria di lungo corso scomparsa in circostanze drammatiche abbia poi subito unametamorfosi così rilevante come il passaggio generazionale che vi è stato alla presidenza, prima da Rita Fontana ad Alberto Figini ed ora a te, ma di fatto in assoluta continuità da questo punto di vista?
Credo che tutto questo sia stato possibile per due fattori, da un lato la totale apertura che i fondatori hanno espresso e dimostrato nei fatti verso i giovani, ma dall’altro e soprattutto dall’attrazione che l’associazione ha esercitato nei confronti della nuova generazione.

E questo secondo te per quale motivo?
Perché i giovani, praticamente tutti quelli che sono poi entrati a far parte della Carla Crippa in pianta stabile, hanno voluto e potuto effettuare una esperienza diretta in Bolivia, all’hogar tra i bambini figli dei detenuti del carcere di Palmasola a Santa Cruz, piuttosto che a Cochabamba o nel Chapare dove anch’io sono stato o in altre località dove sono stati realizzati i tanti progetti portati avanti in questi anni. La scelta di dedicare vacanze o veri e propri pezzi importanti di vita a toccare con mano le situazioni di emarginazione e di disagio sociale, dal carcere alla disabilità, è stata sicuramente dei singoli ma l’associazione ha sicuramente avuto la grande intuizione di saper proporre un’esperienza davvero fondamentale sul piano umano ma anche valoriale, nel senso di una testimonianza diretta e concreta di quel che è la solidarietà e l’aiuto ai più deboli e agli ultimi.

Nel tuo caso cosa ha fatto scattare quasi dieci anni fa la molla di andare in Bolivia?
Era una esperienza che era già nei programmi, se n’era parlato con gli amici molti dei quali hanno fatto poi la mia stessa scelta, poi è arrivata la proposta della Carla Crippa insieme ad altre e ho scelto il Sudamerica perché mi ha sempre attirato per tante ragioni.

Ora ci sei tornato da presidente, e come ti sei sentito?
Beh, anzitutto va detto che ho ritagliato dieci giorni del viaggio di nozze in pieno accordo con mia moglie perché mi piaceva rivedere insieme a lei quei luoghi che mi hanno sempre affascinato ma anche perché volevo, proprio da presidente, far sentire tutto il mio sostegno e quello dell’associazione al lavoro, duro e più faticoso di quanto si creda e si possa pensare, che Mirko Pozzi con la moglie Veronica stanno facendo a Santa Cruz, in particolare all’hogar de la Esperanza da più di un anno a questa parte, tenuto conto che con loro c’è anche il loro figlioletto Santiago.

Che impressione hai ricavato sia per quanto riguarda in generale la situazione in Bolivia che più nello specifico per l’hogar?
Per quanto riguarda la Bolivia ho avuto di fatto la conferma che si tratta di un paese che sta crescendo sicuramente ma portandosi sempre dietro tante contraddizioni e contrasti soprattutto a proposito delle situazione di disagio sociale che sono molto diverse per esempio da quelle che si possono riscontrare in Africa dove la povertà è evidente. In Bolivia spesso non la vedi subito o direttamente, la devi scovare, servono insomma chiavi di lettura che si trovano soltanto vivendoci per un po’. Per quanto riguarda l’hogar posso confermare quello che Mirko e Veronica continuano a trasmetterci nei frequenti contatti che abbiamo anche a distanza: la situazione è oggettivamente difficile per tanti motivi, interni ed esterni alla stessa struttura.

Da neo presidente come intendi portare avanti il compito che ti è stato affidato?
Sicuramente continuando a sviluppare quella integrazione tra le componenti dell’associazione diverse per età ma che hanno ormai imparato a collaborare pienamente su ogni progetto e iniziativa forti di una concretezza e di una conoscenza delle situazioni per le quali si opera. Un altro ambito sul quale vogliamo continuare ad investire è sicuramente quello dei nuovi volontari che vogliano fare un’esperienza diretta sul campo, in Bolivia. Ad oggi sono stati ormai una trentina quelli che vi hanno trascorso un periodo più o meno lungo e va sottolineato che non sono più solo seregnesi ma di ogni parte della Brianza, gli ultimi sono di Briosco, Cassago, Verano. Ma è chiaro che la nostra attenzione principale e prioritaria resta quella degli interventi che vogliamo portare avanti in Bolivia, a partire proprio dall’hogar de la Esperanza cui sono riservate sempre le prime e maggiori attenzioni.

Luigi Losa

Le carceri in Bolivia

Ovvero le città (autonome) dei detenuti.

Raccontare un carcere boliviano non è semplice. Si rischia di scadere nel pittoresco, nel confondere il lettore con dettagli incredibili alla sensibilità europea, da film tragicomico, e distogliere la sua attenzione dalla drammaticità della condizione penitenziaria.
Innanzi tutto le carceri in Bolivia non sono carceri. Sono case, magazzini, terreni riadattati a prigione. Normalmente case col cortile centrale. Tutto attorno le stanze (in Bolivia si chiamano stanze, non celle). Peculiare è il carcere Palmasola di Santa Cruz: un’area recintata dentro la quale nel corso degli anni i detenuti hanno costruito quartieri residenziali per i detenuti più ricchi e quartieri dormitorio per i più poveri, piazzette, chiesa cattolica, chiesa evangelica, campi sportivi, negozi, laboratori, scuole. Una vera e propria città dei detenuti.

Il detenuto che entra in prigione inizia con una settimana di calabozo, ossia la cella delle punizioni, un cubo di cemento di tre metri per tre. La polizia dice che è per calmare subito l’aggressività del detenuto fresco di condanna, ma in realtà è per permettere ai poliziotti di conoscere il nuovo detenuto, guardarlo bene in faccia per qualche giorno ed evitare, quindi, che il detenuto si mescoli nel viavai dei visitatori ed esca di prigione tranquillamente senza dover congeniare rocambolesche fughe. Poi accede alla prigione. Per prima cosa deve procurarsi la stanza/cella. Deve comprarla da un  detenuto in uscita.

 

Ce ne sono per tutte le tasche, si va dalle villette dei narcotrafficanti del carcere Palmasola di Santa Cruz ai loculi (loculi!) del carcere di San Antonio di Cochabamba: buchi di cemento lunghi due metri, larghi e alti un metro dove i detenuti si infilano per dormire e dove possono conservare durante la giornata i loro pochi effetti personali. Il prezzo poi dipende dalle leggi del mercato e dall’incrocio di domanda e offerta. Quando le carceri sono particolarmente affollate i prezzi salgono e i detenuti più poveri sono costretti a condividere gli spazi. Nel carcere di Chimoré i detenuti spesso dormono sdraiati per terra e sul fianco, per poterci stare tutti, allineati come sardine.

 

Seconda preoccupazione del detenuto è il cibo. Lo Stato passa al detenuto un contributo economico giornaliero che è sufficiente per comprarsi un pasto al giorno. Per il secondo devono arrangiarsi, e diventa quindi necessario inventarsi un modo per generare introiti. I più intraprendenti aprono un’attività in proprio: per esempio acquistano una cella in più e la trasformano in un bazar per la rivendita di beni di prima necessità o in un ristorantino che serve zuppe. Altrimenti nelle carceri ci sono laboratori creati e gestiti in assoluta autonomia dai detenuti: falegnamerie, fucine metalmeccaniche, sartorie per le donne, laboratori per la decorazione di ceramica. In Bolivia si sa che per comprare a buon mercato bisogna andare alle porte delle prigioni. A Cochabamba per esempio, tutti sanno che i mobili a buon mercato si acquistano alla prigione di Sacaba, che l’artigianato si può acquistare a El Abra, che i barbecue sono alla prigione di San Antonio e che le signore della prigione San Sebastián sono specializzate in lavaggio e stiraggio della biancheria.
La situazione sanitaria è pessima. La fatiscenza delle strutture e l’eccessivo affollamento portano al diffondersi di malattie che in Europa sono ormai sconosciute come la tubercolosi. L’assistenza sanitaria è assente e quel poco che c’è si deve alle organizzazioni di volontariato e alle chiese locali. Rompersi una gamba in carcere può significare rimanere storpi per sempre.

Uno dei tasti più dolenti della situazione penitenziaria è senza dubbio il livello di rispetto dei diritti umani fondamentali, e in particolare dei diritti di difesa dei detenuti. L’accusato è nelle mani di un avvocato d’ufficio che, nel migliore dei casi, non ha le risorse adeguate per assistere l’imputato. A Cochabamba in media un avvocato d’ufficio assiste un centinaio di imputati e gli uffici dove lavora spesso non hanno nemmeno l’energia elettrica perchè il Ministero di Giustizia paga le bollette saltuariamente. Ogni singola fotocopia è resa possibile dai risparmi del detenuto. Se non ha soldi non partecipa alle udienze (chi paga il taxi a lui e a due guardie per trasferirsi dal carcere al tribunale?) e non gli viene notificata la sentenza (chi paga il taxi all’ufficiale notificatore dal tribunale al carcere?). Nel carcere di Arocagua alcuni detenuti condannati in via definitiva a due anni di detenzione vi rimanevano quasi quattro anni, perchè loro non sapevano a quanto fossero stati condannati e nè l’amministrazione penitenziaria nè quella giudiziaria si erano accorti che il detenuto avrebbe dovuto lasciare il carcere. Questa carenza ha portato alla creazione di una figura peculiare: il procurador del carcere. Si tratta di un detenuto che ha un minimo di conoscenza dei procedimenti giudiziari e la fiducia del governatore, che esce dal carcere e si reca in tribunale ogni giorno per agilizzare le pratiche dei compagni.
Interessante: laddove manca lo Stato i detenuti si organizzano per supplire alle carenze istituzionali. L’auto gestione è il metodo di governo delle carceri boliviane. I poliziotti solo garantiscono la sicurezza esterna. Dentro i detenuti fanno il resto. Una volta all’anno mediante libere elezioni eleggono il loro rappresentante: il delegado. Il delegado interloquisce con le istituzioni e soprattutto crea il suo “governo” con tanto di “ministri”: il responsabile della pulizia delle parti comuni, il responabile delle attività formative / ricreative, il responsabile dei laboratori artigianali etc.

Ma il dato più incredibile alla sensibilità europea è che le carceri in Bolivia sono piene di donne e bambini. Se la famiglia del detenuto non ha mezzi di sostentamento, tutti seguono in prigione l’uomo. A Palmasola dei circa 5.000 abitanti del carcere solo 3.000 sono detenuti. Gli altri sono familiari al seguito. Le donne escono di giorno e cercano di arrotondare il bilancio familiare procurando qualche spicciolo in attività di piccolo commercio. E i bambini crescono in prigione. Generalmente vengono utilizzati come corrieri tra dentro e fuori la prigione; i poliziotti di solito non li perquisiscono, ma quando lo fanno trovano nelle loro tasche soldi, droga, armi. Ma questa è la vita dei bambini della prigione. Alcuni di loro nascono in prigione e fino all’adolescenza il loro orizzonte si ferma al muro di cinta del carcere.

Mirko Pozzi

 


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